Gioie e dolori del giovane rugby

La squadra di Magoanine, nel primo mese di allenamenti, ha già raggiunto un primato urbano: siamo la squadra under 13 di Maputo con il maggior numero di ragazze! Anche i tre allenatori, Mitò, Pepe e Nenè ne sono rimasti sorpresi ai primi allenamenti, quando su una quarantina di bambini una buona trentina erano ragazze.

Sono sorpresi perché nelle altre squadre che allenano non è così anzi, è quasi il contrario; loro sostengono che sia dovuto al quartiere, che le ragazzine del centro città sono piene di “xiliques”, e cioè che fanno le smorfiosette. Invece a Magoanine è diverso, quasi è campagna, le abitudini e le mode sono differenti dalla città di cemento, e le ragazzine si fanno meno problemi a praticare uno sport come il rugby.

Anch’io sono rimasta sorpresa che le ragazzine partecipassero così tanto ma, mi permetto di aggiungere, io credo anche che sia perché a Magoanine non c’è niente da fare, e perché si sentono incentivate dalla presenza di un’allenatrice donna; le proposte per i giovani nel quartiere sono molto limitate, e anche le pose che una donna può assumere tra le sabbie delle vie sono limitate, e allora il rugby diventa uno spazio, un tempo e un’occasione nuova in cui potersi sperimentare.

C’è anche da dire che, in generale, stimoliamo una certa curiosità nella scuola: chi saranno mai questi quattro tipi con scarpette e calzettoni che girano per il cortile con ‘ste palle ovali in mano?

I ragazzini ci aspettano all’ombra dell’albero di mango e ci guardano arrivare divertiti, ché dei professori così dentro alla scuola non li hanno mica mai visti: qui la formalità e cerimoniosità delle relazioni è molto importante, per cui non si può salutare in un qualunque modo (è una cantilena che fa: “buongiorno signor professore, stiamo bene di salute grazie a dio, obrigada”), per cui non ci si veste in qualunque modo (pantaloncini corti a scuola sono vietati) e, cosa ancora più importante, non si parlano i dialetti a scuola (il portoghese è la lingua ufficiale nonché coloniale, ma la gente parla un sacco di altre lingue di origine Bantu, a Maputo prevalentemente Changana e Ronga).

Questa questione della lingua è stato un po’ l’asso nella manica dei tre allenatori per conquistare l’interesse dei ragazzini: i professori non parlano changana a scuola, mentre dopo i primi scambi di battute e di palle ovali, Pepe ha cominciato a spiegare in dialetto le regole del gioco, a esclamare “Uatwa!” ad ogni lancio ben fatto (vuol dire tipo “và che roba!”) e i bambini a ridere come pazzi, mentre rompono un tabù non da poco: il dialetto può essere una lingua di insegnamento formale.

Il lunedì e il mercoledì ci vediamo al campetto – di sabbia – della scuola alle 8 e mezza del mattino, di solito i bambini sono già lì ad aspettarci, trepidanti. Gli allenatori arrivano con le facce mezze addormentate, perché posso garantirvi che il paio d’ore che passano sui mini van per raggiungere il campo sono davvero estenuanti.

Abbiamo cominciato gli allenamenti da tre settimane e ancora il numero di bambini è molto variabile, tra i quaranta e i settanta (di media, ma abbiamo raggiunto picchi di centottanta), una parte ritorna sempre e altri invece appaiono saltuariamente. Alcuni vengono con l’uniforme di educazione fisica e altri in gonnellina, alcuni si allenano a piedi nudi, altri in ciabatte e pochi con scarpe da ginnastica.

Per adesso è tutto un gran bel casino, dalla gestione del marasma di ragazzini durante l’allenamento alla gestione dei tre allenatori e delle dinamiche con il Maputo Rugby Club.

È un casino sì, un casino intenso e confuso, imprevedibile e africano. Interpretare le dinamiche che ci sono nel mezzo è complicato, ma allo stesso tempo estremamente coinvolgente.

Abbiamo cominciato gli allenamenti con le linee di pass, rispettare il tempo della palla, chiamarla a gran voce, correre in avanti e passare. Solo che sono tanti ‘sti ragazzini, e allora si trovano ad aspettare, e invece vogliono giocare. Quindi a volte ritornano, a volte no. È pure successo, all’inizio, che i bambini venissero e gli allenatori no, senza avvisare e senza dire niente.

E allora lì bisogna scavare, riprendere il gesto della pala che scava nella sabbia per dissotterrare i problemi e capire cos’è che non va. Che qui non è facile, la sabbia è profonda e fatta di milioni di granelli accavallati uno sull’altro, e capire dove sia la radice della questione è un’impresa complicata. I machangana non si lamentano molto dei loro problemi. Se una cosa non gli va bene non reclamano, semplicemente si rifiutano di farla. Ho dovuto inseguire gli allenatori nelle sabbie del loro quartiere, sedermi e chiacchierare, andare a trovarli nel loro territorio e farmi spiegare.

Il problema era (ed è) nella relazione economica (ma non solo…) con il Maputo Rugby Club, prima società di rugby mozambicana che da un paio d’anni sta formando atleti affinché diventino allenatori certificati di rugby, sostenendoli nell’apertura e nella gestione di nuove squadre in vari quartieri della città. Inoltre, il Maputo Rugby Club (detto MRC) ha fondato la Federazione Mozambicana di Rugby, con la speranza che, col tempo, le diverse squadre diventino autonome e possano associarsi alla Federazione come società autogestite.

In questo momento l’MRC sta chiedendo molti sforzi ai propri allenatori, nonché giocatori senior, mandandoli in ogni lato della città, garantendo in cambio un piccolo sussidio (ajuda de custos); ma il quartiere di Magoanine è molto lontano, e gli allenatori hanno chiesto un incentivo e che gli venisse coperto il costo degli spostamenti. Arrivare a Magoanine costa (per tutti e tre) 200 meticais alla settimana, e cioè 800 al mese, si tratta di una dozzina di euro ma che a loro fanno la differenza. E capisco anche che chiedano un incentivo per incaricarsi della responsabilità di una nuova squadra e degli allenamenti che gli occupano due intere mattinate (senza considerare i futuri tornei nel weekend). Si tratta di, mensilmente, poco meno di trenta euro (2000 meticais) per il primo allenatore, e di altri quattordici (1000 meticais) per ogni vice allenatore. *

* Parlare di reddito medio a Maputo non è semplice, le differenze salariali tra categorie professionali sono abissali e la maggior parte delle persone lavorano nel mercato informale, quindi difficilmente quantificabile. Basti sapere, per avere un metro di paragone, che il salario minimo statale di un allenatore sportivo non qualificato è di circa 3800 meticais mensili, corrispondenti a 54 euro.

Gli allenatori hanno chiesto, il Maputo Rugby Club non ha risposto, e allora loro non si sono presentati agli allenamenti. E però così abbiamo perso dei bambini, ché di stare lì ad aspettare sotto l’albero senza che niente succeda ha fatto passare la voglia, ad alcuni, di venire ad allenarsi.

Allora ho cercato di intermediare, di garantire per lo meno il costo dei trasporti per far arrivare i tre allenatori alla scuola di Magoanine, ma per ora chi sta fornendo questo valore è il portafoglio personale del coordinatore della società, e questo non lo trovo giusto.

Pepe, Milton e Nenè hanno accettato il compromesso con una certa riluttanza, e qui bisogna dire che chi poi li ha convinti davvero sono stati i bambini di Magoanine con il loro entusiasmo: sai, arrivare alla scuola dopo due ore di chapa (i minibus del trasporto pubblico) e trovare un nugolo di ragazzetti esaltati che non vede l’ora di prendere la palla in mano, che accerchia gli allenatori in trepidazione per giocare e che, alla fine dell’allenamento, li prende per mano senza lasciarli tornare a casa, contribuisce a fortificare quel compromesso emotivo fatto di soddisfazione, orgoglio, valorizzazione e piacere dello stare insieme in campo.

Pepe, Milton e Nenè sono stati presi un po’ alla sprovvista da tutti quei sorrisi carichi di aspettative e di simpatia. Si sentono desiderati, e si accorgono della potenzialità della loro presenza in questo quartiere. Arrivano sempre più puntuali e sempre più sorridenti con le loro magliette di Rugbio, convinti che creare ponti sia importante, in tutti i lati del mondo. Prendono i palloni e cominciano a lanciarli, coi bambinetti a corrergli dietro, scherzano, si prendono in giro, nascono i primi soprannomi e le prime relazioni, confusioni di piedi per aria e facce nella sabbia, e sudore che ci appiccica un po’ tutti.

Alla fine dell’ora fanno sedere i bambini sotto l’albero di mango e gli domandano com’è andato l’allenamento, i bambino rispondono “bene” a parte una, Cristina Rui, una bassetta piena di energia e di segni sulla faccia, che alza la mano e dice: “i miei compagni non chiamano abbastanza forte la palla, a partire da oggi io la passerò solo a chi grida per davvero”. Scroscio di appalusi e di risate.

Il “terzo tempo” post allenamento si sta prolungando sempre di più, i tre allenatori gongolano nel mucchio di questi ragazzetti che li prendono per mano, li abbracciano, li circondano, gli domandano e se la ridono, eccome se se la ridono, proprio dal cuore. L’altro giorno Mitò mi ha detto, “quei bambini di Magoanine sono davvero meravigliosi”.

Io sono sorpresa della spontaneità con cui certi aspetti del rugby vengano interiorizzati dai bambini, di come certe cose non sia necessario spiegarle perché vengono da sé, di come una mischia, un placcaggio o una discussione post allenamento abbiano un ché di naturale e istintivo e di come stiano sorgendo spontanei, tra le sabbie e le risate che si sollevano dal campo.

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