Il cubo di Rugbik

Quello che mi piace del lavoro educativo a trecentosessanta gradi è che in una giornata lavorativa ci si ritrova a compiere otto mansioni diverse, tutte intrinsecamente educative ma che prevedono competenze e contenuti apparentemente distanti tra loro; come adesso, che mi trovo a scrivere l’articolino per il Blog mentre con l’occhio e orecchio destro accompagno il cartone animato della Valle Incantata in compagnia di tre ragazzini della Casa Famiglia in cui lavoro senza cercare di dimenticarmi la zuppa sul fuoco.

Quello che non mi piace delle insalate educative è che c’è il rischio di rimpinzare di aspetti educativi ogni angolo, di voler incontrare gesti pedagogici in ogni azione che si compie. O rimanere delusi se non si gestisce l’“educatività” di ogni movimento. Come adesso, che è stato un tranquillo mese di allenamenti e allora mi sembra che abbiamo fatto poco, o di non aver approfittato dei miliardi di potenzialità pedagogiche presenti in ogni istante, solo perché non ci son stati eventi sensazionali ed eccezionali di cui potersi vantare.

Dopo il primo torneo, abbiamo ricominciato a fare gli allenamenti normalmente, il lunedì e il mercoledì alle 8 e mezza nel bel mezzo della sabbia; normalmente vuol dire con numeri di bambini estremamente variabili (dai dodici ai quaranta), come variabile è il ritardo degli allenatori nell’arrivare a Magoanine (dai cinque ai trenta minuti). Normalmente vuol dire che ci sono allenamenti molto divertenti e altri un po’ meno animati; mattinate in cui le bambine ci corrono incontro fin sulla strada e non la smettono di chiacchierare, e altre giornate in cui faticano a rispondere alle nostre domande, e sembra che le dobbiamo punzecchiare solo per farci dire ciao.

Così come, normalmente, vuol dire anche lo strato di ansia che accompagna il mio respirare durante il lunedì e il mercoledì, soprattutto nei giorni di pioggia, ché alle 6 di mattina stiamo a discutere con gli allenatori il da farsi, affrontare un’ora e mezza di minivan con il rischio di non dare l’allenamento o rinunciare, ma se poi tra poco smette? E le piccole conseguenze a pioggia (per l’appunto) di ogni decisione, che sembra che spostando un tassello si cambi l’organizzazione dell’intero disegno. Se gli allenatori vengono e continua a piovere, si scoraggiano e perdono l’entusiasmo? E se non vengono che faccio, gli chiedo di restituire i soldi per il trasporto di quel giorno? E se smette di piovere nel frattempo, chi avvisa le bambine che non ci sarà l’allenamento? Per non dire di quando a Maputo piove a zone, tipo in Centro c’è il sole a Magoanine il diluvio.

Sono quei dilemmi su cui mi scervello alle cinque del mattino svegliata dal picchiettare della pioggia sul tetto di camera mia.

Durante e alla fine degli allenamenti, i motivi di apprensione sono altri: Ma le ragazzine si staranno divertendo abbastanza? Come coinvolgerle nel modo giusto? Perché alcuni desistono? Perché abbiamo poca presa sui maschi? Come mettere maggiormente l’accento sugli aspetti educativi delrugby? Cosa manca, cosa c’è in eccesso?

Una cosa bella è che facciamo tendenza, e questo mese abbiamo ricevuto due visite speciali: quella degli allenatori del Bhubess Pride e quella dei giovani giocatori dell’African Seven Cup. La prima era di un gruppo di giocatori di varie parti del mondo che sono venuti due settimane a fare formazione agli allenatori del Maputo Rugby Club (quindi anche ai nostri Pepe, Milton e Dariva) e hanno approfittato per fare un giro al campo di Magoanine, dando due allenamenti intensivi. La seconda è stata la visita degli studenti delle scuole francesi dell’Africa australe, riunitisi a Maputo per un torneo annuale. Anche in questo caso, curiosi di conoscere la squadra di Magoanine, hanno gestito altri due allenamenti.

È bello sia perché a Magoanine queste cose non succedono mai, e quindi abbiamo creato degli eventi, delle attrazioni e delle attenzioni per una parte di città che ne riceve ben poche; ed è bello anche perché questi gruppi sono venuti in macchina potendo così portare al campo tutti quegli attrezzi che noi non riusciamo mai ad avere: i sacchi per fare i placcaggi e i bag per fare le ruck. Le ragazzine erano in visibilio.

Una cosa che mi preoccupa è di non star approfondendo abbastanza la conoscenza delle ragazzine e dei ragazzini che vengono ad allenarsi: per ora sappiamo i nomi di quelli che vengono sempre, ma di quelli che vengono ogni tanto no; non sappiamo ancora con chi vivano, in che strade e in che case. Sappiamo che molti non fanno colazione prima di venire al campo e già gli abbiamo raccomandato di farlo, ma senza sapere chi è nelle condizioni di poterlo chiedere in casa. Non sappiamo se a scuola vanno bene o male, se fanno i compiti oppure no (ma ne abbiamo già beccate due che hanno bigiato le ripetizioni per venire ad allenarsi).

Sono veramente tanti piccoli ingranaggi colorati di un rompicapo in cui, a seconda di come li muovi, si modifica la sequenza dei colori e l’incastro dei quadratini: girando in un senso o nell’altro danno vita a nuove composizioni, a volte soddisfacenti a volte meno.

Quello che sappiamo è che il rugby li sta appassionando, che noi gli piacciamo perché siamo degli adulti un po’ diversi da quelli con cui sono abituati ad avere a che fare: non diamo punizioni, giochiamo con loro, ridiamo e scherziamo insieme, facciamo domande, li prendiamo per mano per spiegargli le cose, non ci arrabbiamo. Quello che è certo è che l’ora di allenamento è un’ora in cui provano a convivere con degli adulti in una maniera diversa, divertente e dolce allo stesso tempo.

È vero, i placcaggi non sono dolci, ma saperli spiegare con dolcezza fa parte dell’arte di educare.

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